In questa giornata di memoria e riconoscenza, il Comune di Scalenghe si unisce al ricordo dei Caduti di tutte le guerre e rende omaggio alle Forze Armate, presidio di pace e coesione. 
 
Il 4 novembre è un’occasione per riflettere sul senso profondo dell’unità nazionale, sulla responsabilità civile e sul valore inestimabile della pace. 
 
INTERVENTO COMPLETO DEL VICESINDACO EMANUEL GIRAUDO
 
Gentili Concittadine e Gentili Concittadini
Un saluto alla nostra Sindaca Monica Pecchio che oggi non poteva essere qui.
Permettetemi un saluto ed un ringraziamento a tutti coloro che rendono possibile essere qui a celebrare la
festa del 4 novembre. Un ringraziamento alla Corale che accompagna le nostre riflessioni, al Comitato Storico,
alle associazioni presenti, in particolare le associazioni d’arma e i rappresentanti delle forze armate. Aggiungo
ancora un ringraziamento all’Amministrazione Comunale e in particolar modo al Consigliere Francesco Paolo
Chiavassa che fa da collante alle giornate come oggi.
La vostra presenza, il vostro impegno è un valore che non puó essere considerato scontato ma che piuttosto va
sempre sottolineato.
Il 4 Novembre viene spesso identificata come una sorta di "festa dimenticata". I bambini non stanno più a casa
da scuola e le attività produttive sono aperte e, senza dubbio, rispetto ad altre feste civili viene vista con meno
sentimento.
Oggi festeggiamo l’unità nazionale.
Prima del 4 Novembre 1918 i confini dell’Italia erano profondamenti diversi. Parti di quella che oggi
consideriamo Italia appartenevano storicamente ad un’altra nazione.
Abbiamo sentito i nomi di ragazzi scalenghesi che sono morti proprio per modificare quei confini.
Proprio i confini sono ancora oggi i protagonisti delle due guerre più vicine a noi. In Ucraina e in Medio Oriente
muoiono ragazze e ragazzi esattamente come sono morti i nostri ragazzi poco più di cent’anni fa. Muoiono per
difendere il proprio territorio oppure per espandere i confini del proprio paese (a seconda di come lo si vuol
vedere).
Permettetemi la provocazione dicendo che il 4 Novembre pare una festa "dimenticata" perché noi ora abbiamo
dei confini geografici ben precisi e non minacciati. Ma se la nostra terra rischiasse di non essere più nostra? O
se la nostra lingua, i nostri costumi o la nostra religione non fossero più le nostre, il 4 Novembre sarebbe ancora
una festa "dimenticata".
Inoltre, come tutti sapete, oggi festeggiamo le forze armate.
E permettetemi la stessa metafora. Se l’Italia fosse un paese senza un’organizzazione di sicurezza nazionale,
senza una struttura di difesa militare, senza un’ingegneria aerea o navale ma soprattutto senza donne e uomini
che ogni giorno impegnano il loro tempo e le loro energie nelle forze armate al nostro servizio. . . il 4 Novembre
sarebbe ancora una festa "dimenticata"?
Giornate come questa servono a ricordarci che nulla è scontato e tutto va costruito.
Come diceva prima Candido la pace si costruisce con piccoli gesti ogni giorno.
L’articolo 11 della Costituzione appeso sul balcone del Comune dice che l’Italia ripudia la guerra. Il 4
Novembre 1918 è stato uno dei passaggi fondamentali per consentire ai nostri padri costituenti di poter
scrivere una frase così potente.
Ogni 4 Novembre ripudiamo la guerra commemorando chi ha perduto la vita per definire i nostri confini e fare
l’Italia.
Ogni 4 Novembre ripudiamo la guerra ricordando tutti i membri delle forze armate che ogni giorno dedicano il
loro impegno al mantenimento della pace in Italia e nel mondo.
Grazie a tutti voi quindi per essere qui a ribadire con forza i valori insiti nelle celebrazioni del 4 Novembre
Viva l’Italia unita, Viva le forze armate e Viva la Pace
 
 
 
 
INTERVENTO COMPLETO DEL COMITATO STORICO DI SCALENGHE
 
La Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate ci offre ogni anno l'occasione di parlare di guerra.
Non perché sia qualcosa di positivo, ma per l'esatto opposto: la guerra è una realtà drammatica che
dobbiamo ricordare per evitare che si ripeta.
Puó sembrare un concetto ovvio, ma oggi, nel 2025, avremmo voluto che la guerra fosse solo un ricordo
del passato e non una ferita ancora aperta. Eppure, nonostante le lezioni della storia, i conflitti
continuano. In ogni parte del mondo ci sono persone che soffrono, case distrutte, bambini che
crescono nella paura.
Ripartiamo allora da quella guerra di oltre cent'anni fa.
Il 4 novembre 1918 parla di vittoria, ma anche di dolore: di trincee e silenzi, di lettere scritte con mani
tremanti, di ragazzi che lasciarono tutto per un'idea di patria e spesso non fecero ritorno.
E parla anche di noi oggi - di un'umanità che, nonostante tutto, continua a farsi del male. Dopo più di
un secolo, si combatte ancora: con altre armi, in altre lingue, ma con la stessa paura, la stessa rabbia,
lo stesso dolore.
I conflitti in Ucraina e Israele dimostrano quanto sia semplice iniziarli e quanto sia difficile fermarli. E,
come sempre, a pagarne il prezzo non sono i potenti, ma la gente comune.
E dunque, perché non riusciamo a fermare le guerre?
Le ragioni sono molte:
forse perché gli interessi economici e politici pesano più della volontà di pace;
forse perché il potere e l'orgoglio valgono più della vita umana;
forse perché abbiamo imparato a convivere con i conflitti, come con una ferita che non vogliamo più
guardare;
oppure perché ci siamo assuefatti alle immagini di distruzione, alle notizie che scorrono in fretta, ai
nomi che diventano numeri;
o, piuttosto, perché la pace non fa rumore e viviamo in un tempo in cui chi grida più forte sembra avere
sempre ragione.
Eppure la guerra non nasce dalle armi: nasce prima, nei cuori chiusi, nei muri che costruiamo ogni
giorno, nelle parole che feriscono, nell'indifferenza che spegne la compassione.
Quando ci si abitua al dolore degli altri, si smette di sentire la propria responsabilità.
Ma la pace non è un affare dei potenti. È una scelta che comincia da ciascuno di noi.
Ogni giorno vediamo che chi ha il potere di cambiare il mondo spesso non lo fa, ma questo non ci esime
dal nostro dovere.
Serve il popolo. Servono i cittadini. Serve il coraggio di dire "no" all'odio, di credere ancora nel dialogo,
di scegliere il confronto quando è più facile tacere.
Un popolo che parla con una sola voce puó far tremare i palazzi del potere.
Se unito, ha una forza immensa: puó chiedere giustizia, spingere i governi a cercare soluzioni pacifiche,
dire no alla violenza.
Far sentire la propria voce non significa solo scendere in piazza: significa educare i nostri figli al rispetto,
rifiutare l'odio anche nelle piccole cose, costruire ponti invece di muri.
Il 4 novembre non è soltanto una data sul calendario. È un monito che ci ricorda quanto la pace costi, e
ci obbliga a chiederci se la stiamo davvero difendendo.
La pace non è un'eredità da custodire, ma un seme da piantare ogni giorno.
Perché essa nasce nei gesti quotidiani: nel modo in cui parliamo, ascoltiamo, giudichiamo.
La guerra, invece, comincia quando smettiamo di sentirci parte dello stesso destino e finisce solo
quando torniamo a riconoscerci umani, tutti, senza distinzioni.
In questo 4 novembre, ricordare non basta.
Dobbiamo scegliere da che parte stare: dalla parte della memoria, della coscienza, della speranza.
Perché la pace non si conquista una volta per tutte: si costruisce ogni giorno, nelle parole, nelle scelte,
nei silenzi.
E solo quando il popolo saprà farsi sentire - non con la violenza, ma con la forza dell'umanità -
potremo dire di aver imparato davvero qualcosa dalla storia.
La pace non è un sogno ingenuo: è l'unica vittoria che valga davvero la pena conquistare.